Quando un’automobile viene concepita per sostituire una pietra miliare quale è stata l’Alfetta e, dopo pochi anni dal lancio, viene abbandonata per far spazio ad un altro mostro sacro quale è stata la 164, è piuttosto facile che di essa se ne dimentichino presto le gesta e le sembianze. Oggi però, a circa 35 anni di distanza, è giusto riconsiderare l’Alfa 90 e riconsegnarle quel blasone e quel ruolo di ammiraglia che per pochi anni seppe a buon diritto meritarsi.
Già sul finire degli anni ’70 in Alfa Romeo giacevano, con le sigle 155 e 156, rispettivamente un progetto di sostituzione dell’Alfetta, presentata 10 anni prima, ed un progetto di sostituzione della neonata Giulietta che avrebbero dovuto portare alla nascita di due nuovi modelli estremamente innovativi su due piattaforme diverse di cui uno a trazione posteriore e l’altro a trazione anteriore.
Le vicissitudini di quegli anni, che videro la fabbrica di Arese attraversare periodi di forte crisi, indussero i vertici aziendali ad abbandonare i progetti legati a un nuovo pianale e nel 1982, ormai estremamente in ritardo sui programmi, decisero di sviluppare due nuovi progetti, contraddistinti dalle sigle 162A e 162B, da cui sarebbero nate le future Alfa 90 e Alfa 75, con il preciso scopo di riutilizzare gli schemi, i pianali e la collaudata meccanica dei modelli allora in commercio ovvero l’Alfetta e la Giulietta.
Venne affidato a Bertone il difficile compito di disegnare una nuova autovettura che, secondo i dettami impartiti, avrebbe dovuto condividere con la progenitrice Alfetta, oltre che la meccanica, buona parte dell’autotelaio, comprensivo del giro porte. In un periodo brevissimo, 30 mesi, Bertone disegnò un’autovettura a tre volumi aggiornata alle linee tipiche di quegli anni, creando un’immagine diversa da quella che aveva contraddistinto l’Alfetta negli anni ’70; linee squadrate e tese, maggiore eleganza, piglio meno aggressivo e dettagli più rifiniti sono le caratteristiche che il designer torinese seppe infondere, pur limitandosi al semplice rifacimento della parte esterna in lamiera.
Per contrastare l’alleggerimento dell’avantreno in velocità, la cosiddetta lift force, i progettisti pensarono a uno spoiler da posizionare sotto il paraurti anteriore le cui elevate dimensioni, oltre a renderlo ben evidente, lo rendevano vulnerabile nelle manovre. La soluzione, elegante nella sua semplicità, fu quella di renderlo retrattile tramite un sistema a molle di contrasto il cui carico era vinto dalla pressione dell’aria e velocità superiori agli 80 km/h. Di questa soluzione ne godette anche il coefficiente di resistenza aerodinamica che col valore di 0,37 risultava inferiore a quello dell’Alfetta.
Anche l’abitacolo venne reimpostato seguendo il trend dello stile Bertone di quell’epoca, con una plancia piuttosto massiccia; sulla 2500 V6 spiccava inoltre un’inconsueta strumentazione optoelettronica a elementi fluorescenti di discutibile gusto e non facile lettura; una peculiarità di estrema raffinatezza era poi la possibilità di avere come optional una valigetta rigida, tipo 24 ore e marchiata Valextra, riponibile di misura in un apposito vano della plancia.
L’Alfa 90 debuttò al Salone dell’Automobile di Torino nell’autunno del 1984. L’autovettura riproponeva lo stesso schema meccanico dell’Alfetta: disposizione transaxle con motore anteriore longitudinale, trazione posteriore col gruppo cambio-differenziale posizionato al retrotreno, sospensioni anteriori a quadrilateri, ponte posteriore De Dion, freni a disco sulle quattro ruote con quelli posteriori in-board ovvero montati all’uscita del differenziale per ridurre le masse non sospese. I motori erano i classici e collaudati bialbero a 4 cilindri di 1.779 e 1.962cc, il V6 bialbero di Busso da 2.492 cc ed un 4 cilindri turbodiesel di 2400cc che l’Alfa Romeo acquistava dalla VM Motori di Cento, in provincia di Ferrara.
La vettura che abbiamo provato in questo servizio dedicato all’Alfa 90 è il top di gamma ovvero una splendida 2500 Quadrifoglio Oro equipaggiata con il V6 di Busso. Appena girata la chiave, il sound inconfondibile del 6 cilindri mi trasmette la sensazione di un’automobile con una forte connotazione sportiva, in netta controtendenza con l’aspetto esteriore.
Ma è appena si inizia a ingranare le prime marce che si percepisce la vera natura che contraddistingue tutte le Alfa Romeo di alta classe; la manovrabilità del cambio, nota dolente della precedente Alfetta, è notevolmente migliorata grazie agli interventi fatti sulla tiranteria e consente ora una maggiore precisione di innesti, evitando quelle pericolose grattate che sui modelli precedenti era difficile evitare; lo sterzo, ora servoassistito, è molto più leggero nelle manovre ma non ha perso in precisione e trasmette al pilota sicurezza e prontezza di reazioni.
Nel complesso, grazie alla collaudata impostazione meccanica transaxle, si tratta di un’automobile che rappresenta una evoluzione molto ben riuscita dell’Alfetta e che grazie a piccole ma sostanziali accorgimenti trasmette al pilota la sensazione di un’autovettura molto brillante e direi quasi sportiva per l’esuberanza del motore 6 cilindri, con un’ottima tenuta di strada che trasmette una grande confidenza a chi la guida e altrettanta sicurezza per chi vi è bordo.
I motivi per ritenere l’Alfa 90 un’Alfa Romeo da collezione non mancano di certo, e la sola sfortuna della ‘90’ è stata quella di essere stata un modello di transizione tra l’Alfetta e la 164, la stessa sorte che in casa FIAT è toccata all’Argenta con la Croma e in Lancia alla gamma con la Thema. Tuttavia questo non è un motivo valido per dimenticare un’automobile che oggi è ancora attualissima sul piano tecnico e, come testimone di un periodo stilistico anch’esso di transizione, estremamente affascinante sul lato estetico. Un classico intramontabile.