Capita che una mattina ti svegli con quel rumore di aspirazione nella testa, pensi di aver sognato tuo padre, che non c’è più, la sua Alfetta blu scuro 1.8 quattro fari, i pantaloni a zampa d’elefante, le camicie strette e i basettoni lunghi, quand’eri bambino e rimanevi imbambolato a fissare quei quattro occhioni aggressivi che incorniciavano uno scudetto largo che pareva una bocca pronta a mangiarti.
Capisci in fretta che l’emotività dei sentimentalismi è un paravento troppo sottile per arginare il fuoco di una passione che hai da quando eri fanciullo; tuo padre non puoi dimenticarlo e anche se non c’è più è come se lo avessi sempre al tuo fianco; l’Alfetta è un ricordo che non dimentichi, ma muori dalla voglia di rivivere. Ho già un’Alfa con un pedigree di tutto rispetto in fase di restauro…ma di quella vi parlerò un’altra volta.
Inizia l’avventura
Mi muovo immediatamente sul web, consultando uno dei più completi motori di ricerca per auto di quel genere; quelli sono i pusher che ti somministrano le prime dosi di sazietà e che nella maggior parte dei casi riescono a soddisfare lo stato d’animo di chi è soggetto come me a queste dipendenze. Sono consapevole che questa volta la botta è forte e non basterà il momentaneo appagamento di suggestive immagini immortalate da un monitor né di altrettante carrellate di modelli nelle vetrine virtuali. Cerco distrazioni, penso tra me e me che in fondo con un sedere solo più che un’auto non posso guidare, e che già ne ho più di una nel garage…ma il chiodo è fisso e so già come andrà a finire.
Trovo l’auto che mi interessa a Roma, unico proprietario, 1.8 prima serie, la scudetto stretto per intenderci, grigio chiaro; mi sembra molto bella, non impazzisco per il colore, che trovo un po’ banale su quel tipo di auto, ma c’è anche il prezzo e allora è dunque, dopo aver parlato con il proprietario, un simpatico romanaccio di Centocelle ed averci scambiato un po’ di informazioni, mi trovo con in tasca un biglietto del FrecciaRossa di sola andata… Ho subito orientato la mia ricerca su un modello della prima serie, ovvero un’Alfetta; e si perché l’Alfetta, partorita dal Centro Stile Alfa Romeo, debutta nella primavera del ’72 in un unica versione con motorizzazione 1.8 e così sarà fino alla primavera del ’75. Mio padre aveva un 1.8 scudetto largo del ’77, era l’evoluzione della prima serie con un leggero restyling estetico e una rivisitazione dell’erogazione che andava incontro a una maggiore attenzione ai consumi attraverso una lieve riduzione della potenza, scesa da 122 a 118 CV. Il cambio, poi, aveva i rapporti più lunghi per favorire una guida più fluida anche se a scapito di quella sportività del propulsore portata all’eccesso che rappresentava la caratteristica Alfa più apprezzata dai puristi; prendo atto che i sentimentalismi hanno già capitolato di fronte a una certa esperienza e perizia collezionistica; la prima serie è la più rara, la più curata, la più veloce: la Prima.
La trattativa
Arrivo nella Capitale e la vedo con una luce diversa. A Roma ci sono stato credo un centinaio di volte, per lavoro, diletto e quant’altro, ma in questa circostanza la scorgo ingiallita, graffiata dal ricordo ancora nitido che come un tarlo buca la mia mente portandola all’estate del ’78, quando trascorsi qualche giorno con la mia famiglia a Roma; l’auto che ci accompagnava era proprio l’Alfetta blu che mio papà parcheggiava in via Cavour di fronte all’albergo che ci ospitava; ci passo davanti con il taxi e la vedo li, ferma, mio padre che scende e che attraversa la strada venendomi incontro… ancora suggestioni, emozioni.
Finalmente giungo all’appuntamento; l’Alfetta la noto subito parcheggiata a lisca di pesce in una via della borgata romana; riconosco il venditore, un ragazzo giovane che l’ha acquistata un mese prima dal primo proprietario; me la descrive con molto entusiasmo, io rimango in silenzio, lo faccio parlare, capisco che non è un patito dell’auto ma un commerciante che se l’è trovata tra le mani e che ha piacere di sbolognarsela al prezzo migliore; quando gli faccio un paio di domande tecniche ha però l’intelligenza di capire di avere a che fare con un cultore del marchio e un amante ed esperto dell’auto e mi ascolta mentre assiste allo scandaglio del veicolo, con la dovizia e la meticolosità propria di un chirurgo. L’auto è molto bella, tenuta bene, curata, originale in ogni sua parte tranne che nel colore; guardandola bene scopro con felice stupore, furbescamente ben celato, che la tinta originale è l’azzurro Le Mans, codice 348, per me il più bello, anche il più raro, quello con cui venne presentata al pubblico l’anno del debutto e che la raffigura nelle brochure e nei dépliant dell’epoca; il venditore mi spiega che l’auto è stata immatricolata nel dicembre del ’73 dal primo proprietario che è deceduto negli anni Novante ed è poi passata in successione al fratello che, penso io, l’avrà fatta riverniciare forse per motivazioni sentimentali o di gusto.
Affare fatto
Poco importa, non è la prima auto d’epoca che sono in procinto di acquistare e so che un’auto con più di quarant’anni può aver cambiato colore nel tempo; così, trasformando in un motivo di contrattazione ciò che per me rappresentava una vera chicca, conduco un’estenuante trattativa cercando di strappare il prezzo per me migliore; evidentemente la mia maggiore età ed esperienza giocano a mio favore, in realtà so già che me la porterò via, in fondo sono giunto a Roma munito di tutto l’occorrente per volturare, targa prova, denaro, perfino qualche fusibile a bastone… Insomma, nel gergo delle guardie e ladri, che in questo contesto non ci sta male, si tratta di un colpo premeditato e quando scopro, aprendo il libretto di circolazione, di quelli ancora a pagine, che il giorno di immatricolazione è il 6 dicembre, soccombo e pago: è la data di nascita di mia figlia…
Antiche emozioni
Contento ed emozionato come un bambino mi metto alla guida della mia ‘nuova’ Alfetta e riscopro rumori, odori che hanno un sapore familiare; e si, l’Alfetta ha proprio un suo profumo inconfondibile, a me gradevole, un impasto di legno, plastiche e metallo che hanno sopportato molto bene il tempo a dimostrazione che le Alfa di quegli anni erano costruite con elevati standard di qualità.
Il posto guida è accogliente anche per un watusso come me; i sedili in tessuto originale sono avvolgenti e comodi, con poggiatesta regolabili; il volante con la corona in legno si impugna bene ed è regolabile in altezza; la posizione di guida è adeguata allo stile dell’auto, gambe e braccia distese; la strumentazione è molto completa come si addice ad un auto da famiglia ma con una forte connotazione sportiva; il bialbero gira come un orologio, con le sue quattro Golden Lodge e i carburatori Dell’Orto; non è altrettanto entusiasmante il cambio, capisco che devo prenderci la mano, ma so anche che la disposizione meccanica del cambio al retrotreno con i freni “in board” come le Formula 1, gratifica assai in termini di tenuta di strada a scapito di una non ottimale manovrabilità del cambio.
Mi muovo nel traffico romano con molta agilità cercando di guadagnare l’accesso al Grande Raccordo Anulare che mi porterà all’autostrada, in direzione nord; non passo certo inosservato, molti mi guardano incuriositi, tanti mi testimoniano la loro approvazione con il pollice alzato. L’Alfetta è un’auto, complice anche la sua longevità costruttiva, che è rimasta nell’immaginario collettivo di molti. L’auto della Polizia e dei Carabinieri ma anche della malavita. E’ stata immortalata negli scatti in bianco e nero della tragedia di via Fani in cui venne rapito l’allora segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro, è un icona degli anni Settanta nel bene e nel male, è l’auto che ha testimoniato il benessere di una media borghesia con la testa sul collo ma il piede pesante sull’acceleratore…
Sull’Alfetta mi sono sentito subito a mio agio, la sento mia, sicuramente se avessi avuto all’epoca l’età di mio padre avrei fatto l’impossibile per comprarmela.
Finalmente arrivo in autostrada, il motore inizia a salire di giri, infilo la terza, la quarta, un attimo e sono già oltre i limiti di velocità consentiti, appoggio la quinta marcia, che non è di riposo, anzi, e l’auto continua a mangiare la strada con una voracità entusiasmante. Nonostante i suoi 100.000 chilometri sulle ruote questo motore ha ancora molto da dare. La meccanica dell’Alfetta è supercollaudata, deriva da quella della Giulia e in particolare dell’Alfa 1750 che andò a sostituire; il motore ha doti di robustezza e durata anche se sollecitato e maltrattato. La cilindrata di 1.779cc è un’evoluzione, come appena detto, dell’Alfa 1750 che nel ’72 venne, in concomitanza dell’uscita dell’Alfetta, sostituita dalla sorella maggiore Alfa 2000. E’ uno dei propulsori più apprezzati dai puristi perché dotato di un piglio, ai bassi e medi regimi, che la cilindrata maggiore, la 2000, non conosce, anche se quest’ultima nell’allungo recupera ampiamente il gap iniziale. L’Alfetta prima serie, inoltre, ha una rapportatura del cambio che esalta la grinta del motore che nelle successive evoluzioni sarà mortificata da rapporti più lunghi per soddisfare, complici le crisi petrolifere di quegli anni, la riduzione dei consumi.
Sono in viaggio, e all’imbrunire circa metà strada è passata. A Firenze decido per una sosta; dopo essermi beato col sound tipico dell’Alfa, apprezzo la presenza dell’autoradio, una Voxson, coeva all’auto, multifrequenza e con mangiacassette; tengo il volume basso perché il sottofondo del bialbero è impagabile.
All’Autogrill incrocio una pattuglia della Stradale, anche per loro una breve sosta; il tempo di un buon caffè, una sigaretta e risalgo in auto; loro sono già in vettura, una BMW Serie 3 Touring, mi vedono, si incrociano gli sguardi; in effetti con sto maglione a dolcevita, i blu jeans scampanati, i capelli un po’ lunghi con i basettoni e i Ray-Ban a coprire gli occhi… non passo certo inosservato, ma quando salgo sull’Alfetta sembra proprio che dietro di me ci sia una telecamera pronta a riprendere una scena di Romanzo Criminale o di un poliziesco con Thomas Milian; gli Agenti della Stradale mi osservano, commentano, io con molta naturalezza esco dal parcheggio, li saluto con un cenno che è ricambiato con stupore e cortesia, e sgaso guadagnandomi l’uscita quasi a istigare un inseguimento…che non c’è nella realtà ma solo nell’immaginazione.
Guidare, guidare…
L’Alfetta è un’ottima autovettura da viaggio, ci sono sopra da più di tre ore e non accuso stanchezza, anzi; sono solo un po’ stufo di questi lunghi rettilinei, vorrei deviare sulla statale ma Torino è ancora lontana e l’indomani, causa la fuga a Roma, devo essere presto in ufficio. Per fortuna arrivo all’altezza degli Appennini Tosco-Emiliani e l’autostrada si fa più tortuosa; lunghi curvoni con controcurve mi impegnano e decido di aumentare la velocità nella speranza che quella pattuglia poco prima incrociata abbia perso le mie tracce. Sottopongo l’auto ad un vero test di tenuta. Il traffico molto calmo mi permette di impostare bene le traiettorie e di constatare come l’Alfetta abbia una tenuta di strada all’altezza della fama e delle leggende sorte intorno a lei. Nonostante i pneumatici sottodimensionati, la mia monta dei 165/70 come da primo equipaggiamento, l’auto offre sempre la sensazione di essere incollata all’asfalto; lo sterzo è molto preciso, e anche quando, strapazzandola, devi correggere, è sempre molto pronto; la sensazione è quella di guidare un’auto moderna anche se di oltre 40 anni fa, e penso che all’epoca fosse davvero all’avanguardia! Non posso non accennare ai freni, sicuri, modulabili, a disco sulle quattro ruote, quelli posteriori attaccati al differenziale per ottimizzare la ripartizione dei pesi e ridurre l’impatto delle masse sospese…gergo tecnico per dire che l’Alfetta aveva soluzioni tecniche parenti strette di quelle che erano utilizzate nelle corse automobilistiche e nei prototipi di Formula 1: mica pizza e fichi…
All’altezza di Alessandria la notte ha già preso abbondantemente il sopravvento sul giorno, mi avvolge una fitta nebbia che i fari allo iodio riescono a fendere permettendomi di non perdere di vista la strada e quel filo di Arianna che è la linea di mezzeria. La mente si fa coccolare da questa coltre di aria densa che pare essere caduti in una vasca di panna montata, conduco l’auto con una naturalezza e disinvoltura che quasi mi porta a pensare di vivere un sogno…che finisce a Torino quando arrivo in autorimessa; allora mi sveglio, scendo dalla mia Alfetta e capisco che il sogno, se sai sognare a occhi aperti, puoi non farlo finire mai. (Testo di Alessandro Cerruti – Foto F.Daudo).