Nel 1958, al Salone dell’Automobile di Amsterdam, venne esposto il prototipo di una piccola vettura con motore a due cilindri contrapposti di 590 cc raffreddato ad aria. Si chiama DAF 600. Nonostante la linea sia piuttosto anonima… per non dire bruttina, l’auto richiamò l’attenzione dei visitatori e degli addetti ai lavori in quanto non solo era prodotta in Olanda, Paese non certo da annoverare tra i grandi produttori di automobile, ma era dotata di un innovativo cambio automatico denominato Variomatic. In pratica, grazie a un sistema di cinghie e pulegge, il sistema variava in modo continuo il rapporto di trasmissione, così come succede nei moderni scooter, cosicché per viaggiare il conducente doveva soltanto premere il pedale dell’acceleratore e azionare il freno per fermarsi.
L’assenza del pedale della frizione ovviamente facilitava la guida, soprattutto nel traffico cittadino e rendeva possibile l’utilizzo di questa piccolo vettura anche ai disabili. Un vantaggio assai apprezzabile anche dal punto di vista sociale che però, almeno nel nostro Paese, cinquant’anni fa non certo all’avanguardia sotto questo aspetto, si trasformò in un limite se non addirittura in un pregiudizio, con la DAF catalogata senza appello come ‘l’auto dei disabili’.
La semplicità paga
In Olanda e in altri Paesi la nuova vettura ebbe un discreto successo commerciale, tanto che tre anni dopo la DAF presentò il secondo modello che, oltre a presentare delle lievi modifiche nel frontale, aveva prestazioni più brillanti grazie al motore di cilindrata maggiorata a 750 cc.
Nel 1964 a Milano, nasce la DAF Italia che inizia a pubblicizzare e commercializzare la Nuova Daffodil, posta in vendita a 785.000 lire. Di questo modello sono previste altre due varianti maggiormente accessoriate: la Daffodil Luxe, che costa 875.000 lire, e la Daffodil Luxe Extra che costa 52.000 lire in più. Il motore resta il 750 raffreddato ad aria, ma gli interni e gli equipaggiamenti, rispetto alla versione originale, sono decisamente più evoluti.
Due anni dopo viene lanciata la DAF 44, un modello totalmente nuovo: il motore pur mantenendo l’impostazione del progenitore, ha una cilindrata ulteriormente incrementata a 850 cc per una potenza di 40 CV e una velocità massima di 123 km/h.
Le sospensioni sono indipendenti su tutte le quattro ruote e all’avantreno sono montate le barre di torsione. Le dimensioni della vettura sono aumentate, così come più grande e godibile è lo spazio interno; la linea, pur ricordando i modelli precedenti, è decisamente più gradevole e rispecchia ora anche i canoni richiesti dal pubblico di casa nostra, e questo grazie all’accordo stipulato tra la Marca di Eindhoven e il designer Giovanni Michelotti.
Timidamente qualche ‘44’ inizia a circolare anche sulle nostre strade, mentre meno attenzione è riservata alla 44 Stationcar.
Continua la serie: 33, 55 e 66
Nel 1967, sempre ingentilita dalla matita di Michelotti, arriva la nuova 750 che assume la sigla 33; da questo nuovo modello, che raggiunge i 110 orari con 32 CV DIN, sono derivate le versioni Furgone, Combi e Pick-up, ma sinceramente crediamo che gli esemplari venduti in Italia si possano davvero contare… sulle dita di poche mani.
Nel 1968, nasce la DAF 55: frontale a parte, il corpo macchina è sostanzialmente simile alla 44, ma la vera novità è l’adozione di un motore a 4 cilindri raffreddato a liquido di 1108 cc e 50 CV che per la prima volta non è costruito dalla DAF, ma derivato da quello della Renault R8. La velocità massima sale 136 orari.
Nel nostro Paese la 55 ha scarsa diffusione, è ancor meno la versione coupè; più fortunata sarà invece la serie 66, prodotta a partire dal 1972; ancora una volta cambia il frontale, ma sono gli interni ad essere notevolmente migliorati. Per quanto riguarda la meccanica, il motore rimane praticamente lo stesso della 55, solo con 3 CV in più di potenza, mentre la trasmissione è ora dotata di una nuova frizione centrifuga; cambiano anche le sospensioni, ora a ruote semi indipendenti secondo lo schema De Dion.
Top di gamma è la 66 Marathon proposta anch’essa nelle versioni coupè e familiare: tutte e tre sono dotate del quattro cilindri di 1300 cc derivato da quello montato sulla Renault R10 Major che sviluppa 65 CV, dodici in più rispetto alla 66 standard e buoni per raggiungere i 145 km/h. Le Marathon sono immediatamente riconoscibili dalla nuova calandra con doppi fari, da tinte più vivaci e da una banda diversamente colorata che corre lungo tutta la fiancata. All’interno, oltre a qualche piccolo dettaglio come la presenza di una consolle che consente il montaggio di tre strumenti supplementari, saltano immediatamente all’occhio i sedili più sportivi che integrano anche il poggiatesta.
Nel 1972 la DAF cede il comparto auto alla Volvo e così, a partire dal 1975, la 66 subisce un lifting che riguarda soltanto la calandra e viene commercializzata come Volvo 66 fino al 1980, quando è sostituita dalla Volvo 343, modello dal design completamente nuovo ma che conserva il motore Renault e la trasmissione automatica. In seguito saranno poi realizzate altre versioni che sulla stessa scocca adotteranno anche cambio tradizionale e motori Volvo.
Un po’ di storia
Fondata nel 1928 come bottega da fabbro dai fratelli Van Doorne, l’officina si specializza in saldatura e si evolve specializzandosi in campi diversi fino ad avvicinarsi al mondo dei motori realizzando dapprima rimorchi e semirimorchi e successivamente camion completi col marchio DAF, abbreviazione di Van Doorne’s AanhangwagenFabriek.
Alla costruzione dei veicoli industriali, divenuta il principale business dell’azienda, così come lo è ancora oggi, verrà poi affiancata, come visto in precedenza, anche la costruzione di automobili. Gran parte della storia di questo storico Marchio attraverso l’esposizione dei relativi modelli di automobili e camion è custodita in un grande museo aperto al pubblico proprio ad Eindhoven.
Capita raramente di incontrare qualche DAF ai nostri raduni di auto d’epoca, mentre è abbastanza frequente farlo in Olanda, Francia e Inghilterra, dove addirittura il locale Club ha fatto ricostruire per i collezionisti alcuni ricambi ormai introvabili, come ad esempio le cinghie del cambio Variomatic.
La DAF e le corse
Già a partire dal 1960, alcuni piloti privati partecipano a rally con la piccola DAF 600 ottenendo successi di categoria. Visto i buoni inizi, nel 1963 la Casa olandese decide di preparare tre esemplari della nuova 750 che ben si comportano nelle competizioni locali. Risultati ancora più importanti arriveranno negli anni seguenti nelle gare di durata della classe 850, come i primi quattro posti al Nurburgring nel 1966 nella massacrante ‘84 ore’, dove le DAF mantengono l’incredibile media, vista la base meccanica di partenza, di 90 chilometri orari.
Altre soddisfazioni per la piccola bicilindrica arrivano nei rally internazionali, dove nel 1967 è prima di classe al Montecarlo, al Rally dei Fiori, all’Acropoli e al Rally dei Tulipani.
Con l’entrata in produzione della 55, il 1968 si rivela un’ottima annata, con ben quindici successi fra i quali la Londra-Sidney, i rally di Montecarlo, dell’Acropoli e la Coppa delle Alpi. Meglio ancora andranno le stagioni successive, con un crescendo di successi: oltre a competizioni meno famose e ai “soliti” Montecarlo, Tulipani e Acropoli si aggiungono infatti il Sanremo nel 1969 e il massacrante East African Safary nel 1970.
Parallelamente ai rally, la DAF scende in pista anche nella Formula 3. L’esordio avviene al Gran Premio di Montecarlo del 1965, dove una vettura sperimentale si piazza al settimo posto; lo stesso anno Jack Brabham stringe un accordo con la Casa di Eindhowen per realizzare tre vetture che l’anno seguente ottengono buoni piazzamenti. Nel 1967 arrivano due vittorie, una a Stoccolma per merito di Van Leppen e una a Brands Hatch grazie a Beckwith.
Nel 1968 vengono contattati i fratelli Pederzani che realizzano appositamente due telai. Le DAF-Tecno ottengono i migliori risultati con Beckwith che è secondo al Jarama, a Zolder e terzo a Roskilde, ma nonostante i risultati positivi, l’avventura nelle monoposto termina a fine anno poiché sopravviene la decisione di concentrare tutti gli sforzi nei rally. Una saggia decisione, visti i risultati sportivi e il ritorno d’immagine, coi modelli vincenti nelle corse su strada che, almeno nell’apparenza, sono identici a quelli di serie.
(A cura di Massimo Chierici)