L’avvento in massa delle moderne tecnologie sta di fatto trasformando l’automobile da oggetto di passione e svago a mero mezzo di trasporto.
L’elettronica, che tanto fa per la sicurezza, minimizza il concetto della guida nella sua essenza, riconducendo tutto a standard ottimizzati.
Un tempo non poi così lontano non era così, la componente umana aveva ancora la sua valenza primaria nell’affermazione del piacere della guida.
Alberto Bergamaschi, ci aiuta a ricordare e analizzare come si guidavano le vetture turismo della seconda metà del secolo scorso nelle situazioni più critiche, in primis sui campi di gara, fossero circuiti o strade da rally, cercando di spiegare quali erano gli interventi migliorativi in assenza di elettronica.
50 anni sono tanti o sono pochi? Dipende dai punti di vista.
Io li ho vissuti come lunghissimi almeno fino agli anni ’90 del secolo scorso, costellato da due guerre mondiali, dalla ricostruzione, dal boom economico, dalla corsa allo spazio, dalla contestazione, dalla tecnologia.
Poi improvvisamente sono diventati brevissimi a cavallo del nuovo secolo, con pure novità importanti, ma non tanto quanto le precedenti.
Perché questa premessa? Perché poco più di 50 anni fa, nel 1971, fa nasceva l’Alfasud, la vettura che segnava la rottura dell’Alfa Romeo col passato: trazione anteriore, motore boxer e fabbricata a Napoli: cose che i puristi del Biscione mai si sarebbero aspettati dal Costruttore milanese per eccellenza.
Alfasud: figlia dell’asse Milano-Napoli
Odiata da tanti, ma poi via via apprezzata per il suo carattere particolare, vantava tecnologia all’avanguardia, spazi interni ampi, prestazioni brillanti e tenuta di strada eccezionale.
Anche i puristi alla fine si ricredettero, accettando di buon grado che un po’ del DNA Alfa Romeo c’era pure nell’Alfasud.
Resta il fatto che, rispetto alla Giulia, la trazione anteriore di Pomigliano presentava soluzioni meccaniche d’avanguardia che ne facevano un’auto moderna a tutti gli effetti.
Nata come berlina a 4 porte di 1200 cc, fu presto affiancata da una versione sportiva, la Ti a 2 porte dotata di un originale spoiler sul portellone.
Tra le iniziative per valorizzare la sportività di questo modello, fu istituito un campionato monomarca in pista, il Trofeo Alfasud Ti, che lanciò la motorizzazione più diffusa del modello, ovvero il quattro cilindri boxer da 1300 cc.
Seguiranno poi, nel corso degli anni, la 1350, la 1500 e la 1500 Ti Quadrifoglio Verde, massima espressione di questo modello coi suoi 105 cavalli.
L’Alfasud Ti fu anche a metà degli anni ’70 il primo approccio ufficiale dell’Alfa Romeo con il mondo dei rally, in cui schierò una 1.3 Ti pilotata con successo da Federico Ormezzano.
Sulla scia di quei successi molti piloti privati scelsero di gareggiare con la vettura di Pomigliano anche grazie ai bassi costi di gestione.
La scelta giusta per budget limitati
Contagiato da questa malattia, anche io fui preso dall’Alfasud-mania, decidendo di preparare una 1.5 Ti Quadrifoglio Verde di gruppo N per cimentarmi nei rally.
Va detto che negli anni ’80 i rally non erano le gare sprint di velocità su asfalto che si disputano oggi coi mostri preparati appositamente, ma erano gare lunghe e impegnative su asfalto e su terra in cui la robustezza del mezzo faceva spesso la differenza, anche a discapito della potenza.
A onor del vero c’erano i famigerati e potentissimi prototipi Gruppo B, ma erano veramente pochi e solo nelle mani dei piloti ufficiali. Tutti gli altri correvano con vetture turismo derivate dalla serie, maggiormente preparate e modificate (Gruppo A) o praticamente standard (Gruppo N).
In sostanza, un buon Gruppo N aveva un costo di allestimento decisamente contenuto, potendo intervenire solo sull’assetto.
Qualche rinforzo alla scocca (ma doveva essere omologato), particolari di sicurezza (roll-bar, cinture, estintore, protezioni sottoscocca) e per il propulsore l’equilibratura e la messa a punto.
Nient’altro, neppure la coppia conica corta per avere più spunto in salita e in ripresa.
E’ immaginabile quindi che tutto si giocasse a livello di assetto, di taratura degli ammortizzatori e durezza delle molle; il resto lo faceva la scelta del modello di auto con cui competere.
Nonostante la presenza importante della Volkswagen Golf GTI da 110 cavalli nella stessa classe fino a 1600 cc, l’Alfasud 1.5 Ti con i suoi 105 cavalli vantava doti di robustezza e tenuta di strada che la mettevano almeno sullo stesso livello della quasi coetanea rivale tedesca.
Solo l’arrivo della più moderna e potente Peugeot 205 GTI (115 cavalli) mise poi in riga le due contendenti, ma qui parliamo già di fine anni ’80.
L’assetto da asfalto
Ciascun pilota studiava un assetto che fosse calzato sul suo stile di guida; a me, abituato alle trazioni posteriori, piaceva una macchina che sull’asfalto avesse tantissimo inserimento, che tenesse il muso stabile dove doveva stare e che poi usasse lo scivolamento del retrotreno per seguire la traiettoria ideale.
Per cui sceglievo sempre setup particolarmente rigidi sul posteriore, con minima escursione della ruota, proprio per far scivolare il più possibile la macchina dietro.
Davanti invece montavo le molle di serie, lasciando una lunga escursione agli ammortizzatori più morbidi, in maniera da avere quanto più possibile le ruote sempre in contatto con l’asfalto.
In questo modo però avevo un forte coricamento laterale che mi obbligava ad anticipare le curve, soprattutto le più lente e le tonde, ma evitavo il fastidioso pericolo del sottosterzo, tipico delle trazioni anteriori stradali.
La guida risultava un po’ impegnativa per i continui sballottamenti nel sedile, ma la precisione di inserimento in curva era decisamente notevole. Ovviamente a patto che l’asfalto fosse pulito.
Col brecciolino bisognava fare attenzione perchè se sbagliavi appena la traiettoria, con le slick che scivolavano oltre il necessario sul terriccio, era un attimo trovarti il sedere davanti al muso o, peggio, un muretto che ti attraversava la strada a tutta velocità davanti ai fari (Rally Villa d’Este 1985).
L’assetto da sterrato
Sullo sterrato invece era un’altra storia, tutto molto più facile e istintivo: vettura morbida davanti e dietro per quel che riguarda la taratura degli ammortizzatori, assetto alto con molle più lunghe e più rigide per evitare beccheggi e affossamenti e un robusto salvacoppa a protezione del motore.
Nelle curve più impegnative usavo spesso la manovra del pendolo, anticipando l’inserimento in traiettoria con lo sbilanciamento del retrotreno verso la parte opposta alla piega per poi riprenderlo immediatamente sfruttando l’inerzia di ritorno del posteriore.
Una pecca terribile dell’Alfasud era il freno a mano, che agiva inspiegabilmente sulle ruote anteriori anzichè, come su tutte le auto dell’epoca con esclusione delle Citroen e della A112, sulle posteriori: in questo modo non era possibile aiutarsi con la leva nei tornanti più stretti per ‘chiudere’ la curva e così, considerando anche l’un po’ limitato raggio di sterzo, a volte si era costretti a ricorrere a ‘infamanti’ manovre che facevano perdere un sacco di secondi.
Con un po’ di esercizio ed esperienza riuscivo comunque ad ovviare all’inconveniente usando la guida a due pedali, cioè frenando col piede sinistro mentre contemporaneamente col destro acceleravo, in maniera da bloccare i freni posteriori mantenendo attiva la forza di trazione sulle ruote anteriori e creando una sorta di effetto freno a mano che metteva la macchina di traverso a metà tornante, predisponendola per l’uscita diritta: andava quasi sempre bene …per fortuna.
Un’altra criticità dell’Alfasud era ancora nei freni: montati all’interno dei semiassi sulla campana del cambio anzichè sui mozzi, dischi e pinze anteriori prendevano poca aria e si surriscaldavano rapidamente, perdendo spesso di efficacia col classico fenomeno del fading.
Una soluzione tecnica nata per l’utilizzo stradale, con lo spostamento delle masse all’interno per guadagnare in stabilità ed anche per comodità della sostituzione delle pastiglie senza dover rimuovere le ruote, ma che in gara si rivelava disastrosa.
Mi ricordo che buttai via un bel risultato al Rally mondiale di Sanremo del 1987 perché per il calore le pastiglie si erano deformate a tal punto che, per estrarle, dovemmo forzare e smontare le pinze.
Un altro aspetto critico dell’Alfasud nell’impiego in gara era legato alla configurazione a cilindri contrapposti del motore boxer.
Nato per contenere gli spazi in verticale e per abbassare il baricentro della vettura, aveva il suo tallone di Achille nella capacità di mantenere costante il livello dell’olio in curva.
In sostanza accadeva che, quando si affrontavano curve tonde impegnative ad alta velocità, l’eccessiva forza centrifuga spostava l’olio verso l’esterno della coppa, mettendo a repentaglio la lubrificazione delle bronzine.
Scottato subito alla prima uscita, anzi, addirittura al primo tornante, con le bronzine che picchiavano in maniera sinistra, ovviai al problema saldando nella coppa delle vietatissime (per regolamento) paratie verticali e viaggiando sempre con mezzo chilo di olio oltre il massimo.
Dove la metti sta…
Il vero punto di forza dell’Alfasud Ti da rally era invece, come e ancor di più che per la stradale, la tenuta di strada.
Le potevi far fare qualunque cosa, soprattutto dopo aver trovato l’assetto ideale: la macchina stava lì dove la mettevi, in discesa ti dava un senso di sicurezza incredibile, sulle curve veloci viaggiava come sui binari.
All’uscita dei tornanti il pattinamento era minimo, soprattutto con l’assetto morbido davanti da me prediletto, e l’unica accortezza era raddrizzare il volante quanto più presto possibile per poter accelerare subito a fondo a ruote dritte.
Era un sistema per avere trazione subito, aiutati dal fatto che le ruote anteriori copiavano quanto più possibile l’asfalto e quindi non si sentiva l’assenza dell’autobloccante (non ammesso in Gruppo N) per trasmettere motricità a terra.
Il motore, che in seguito agli affinamenti di messa a punto consentiti guadagnava almeno 5 cavalli, superando i 110, brillava soprattutto per il tiro ai bassi, cosa non indifferente dato che i rally si disputavano su strade di montagna e le Gruppo N non potevano, al tempo, montare un cambio con rapporto finale corto.
Se poi vogliamo parlare di posizione di guida, c’è veramente poco da dire, in quanto non c’era possibilità di modificare alcunché: due sedili anatomici per contenere quel che si può nei sobbalzi trasversali, e poi tutto il resto di serie.
Una macchina divertentissima, da capire e dominare solo col piede e con la mano – senza staccare il cervello.
E l’elettronica? Si, sì, c’era già ai tempi, si chiamava semplicemente accensione elettronica…