Qualche volta le migliori realizzazioni nascono in modo casuale, ma non fu certo un caso se nel 1967 fu chiesto all’Alfa Romeo di rappresentare l’Italia all’Esposizione Universale di Montreal, organizzata per celebrare il primo centenario della Federazione Canadese, con il prototipo di una granturismo che coniugasse le riconosciute doti sportive del Marchio col garbo stilistico e le raffinatezze estetiche che solo i designer nostrani potevano sintetizzare.
La Montreal compie quest’anno il cinquantesimo compleanno e per capirne meglio l’importanza nella storia della Casa del Biscione occorre fare un piccolo passo indietro ripercorrendo le tappe di un progetto nato qualche anno prima e che ha rappresentato una delle massime vette di ingegno, rigore, perizia e coraggio, uniti a una forte caratterizzazione stilistica e di innovazione tecnologica espressi dalla Casa milanese.
Ci riferiamo al progetto che ha generato la Tipo 33, una vettura che rappresenta un’indiscussa pietra miliare nella storia dell’Alfa Romeo, frutto di un DNA che ha sempre sprigionato un’innata attitudine alle competizioni.
Fu proprio questo che spinse il presidente Giuseppe Luraghi a pianificare, attorno alla prima metà degli anni ’60, un ritorno ufficiale alle corse.
Per fare questo, nel 1964 fu decisa l’acquisizione dell’Autodelta, una piccola azienda di Udine che già collaborava fattivamente nella produzione delle TZ. L’operazione incluse il rientro in Alfa Romeo dell’ingegner Carlo Chiti, che dell’Autodelta fu uno dei fondatori dopo aver lavorato in Alfa dal 1952 al 1957, che fu nominato Direttore Generale responsabile della scuderia ufficiale Autodelta, trasferitasi nel frattempo a Settimo Milanese.
Nasce la Alfa Romeo 33
In quello stesso anno partiva il progetto Tipo 33, quello di un’automobile sportiva in grado di competere nelle categorie in quel momento più seguite dai media e dal pubblico, ovvero il Campionato Mondiale Sport-Prototipi e le cronoscalate, e battersi contro le vetture Sport di Ferrari e Porsche di cilindrata 2.0 litri.
Il primo telaio Tipo 33 progettato in Alfa Romeo dai tecnici Giuseppe Busso e Orazio Satta Puliga entrò nelle officine Autodelta nel 1965. Era costituito da una struttura tubolare a H asimmetrica, realizzata in lega di alluminio, che integrava i serbatoi della benzina realizzati in gomma.
Una struttura in magnesio sosteneva sospensioni anteriori, scambiatori di calore, sterzo e pedaliera, mentre il gruppo motore cambio era montato longitudinalmente in posizione posteriore centrale. La carrozzeria in resina poliestere rinforzata con fibra di vetro contribuiva a mantenere la massa sotto la soglia dei 600 chili, il minimo previsto dal regolamento.
Il motore previsto inizialmente, il quattro cilindri bialbero della Giulia non fu però ritenuto idoneo ad essere ulteriormente potenziato per consentire un confronto pari con le migliori vetture in gara. L’urgenza di poter debuttare nel 1967 portò a valutare l’utilizzo di un motore progettato da Chiti per la ATS granturismo, una vettura bolognese che non ebbe fortuna.
L’otto cilindri a V di 90° di 2,5 litri fu ridotto a 1.995 cc di cilindrata adottando misure caratteristiche di 78×52 mm, e con la distribuzione bialbero, le due valvole per cilindro e l’albero motore montato su 5 supporti erogò subito la promettente potenza di 230 CV.
Il telaio fu adattato per ospitarlo e la vettura assemblata per iniziare un lungo e meticoloso lavoro di messa a punto, iniziato il 7 gennaio del 1967 con la prima prova in pista, a Monza.
La 33 Stradale
Quando, nel 1967, l’Alfa Romeo decide di produrre in piccola serie una versione stradale della Tipo 33 sceglie la matita di Franco Scaglione, il designer fiorentino che nel dopoguerra lavorò prima con Pinin Farina, poi con Bertone e quindi come indipendente.
La 33 Stradale non doveva tradire le origini di un progetto ambizioso che quello stesso anno fu subito vincente nella cronoscalata di Fleron, vicino a Liegi, con alla guida Teodoro Zeccoli e nelle successive evoluzioni sarebbe riuscita nell’impresa di portare all’Alfa Romeo due titoli iridati nel Campionato Marche del 1976 e del 1977.
La 33 Stradale di Scaglione, prodotta in una dozzina di esemplari dalla carrozzeria Marazzi di Milano, è oggi considerata un capolavoro di stile in cui l’innovazione si fonde con la ricerca dell’aerodinamica e della funzionalità .
Linee tonde, assenza di spigoli e, per la prima volta su un’auto concepita per circolare su strada, le porte a ‘elitra’, ovvero incernierate nella parte anteriore e con l’apertura in avanti e verso l’alto su un piano verticale per agevolare l’ingresso in un’autovettura la cui altezza è meno di un metro. Le prestazioni, complice la leggerezza, sono da brivido ancora oggi: 230 CV per una velocità massima di 260 km/h e i 100 km/h da fermo raggiunti in soli 5 secondi e mezzo.
La 33 Stradale fu presentata ufficialmente al Salone di Torino dell’autunno 1967, anche se il suo debutto avvenne qualche settimana prima nell’ambito del Gran Premio di Italia a Monza, sede della la nona prova del mondiale di Formula 1. Gli esemplari venduti all’epoca a una cifra di circa dieci milioni di lire hanno oggi un valore collezionistico di grandezza assoluta.
La Carabo
La 33 Stradale offrì poi la base sulla quale numerosi designer si impegnarono per realizzare esemplari unici arricchiti da un’eccellente base meccanica. Ricordiamo l’Iguana di Giorgetto Giugiaro, la 33 Coupé Speciale e la Cuneo di Pininfarina, la Navajo di Bertone.
Ma quella che il giovane Marcello Gandini disegnò nel 1968, quando lavorava nell’atelier di Nuccio Bertone, fu quella che più di ogni altra segnò una vera svolta stilistica: la Carabo.
Il nome prende ispirazione dal Carabus auratus, un coleottero dai colori metallici e brillanti, gli stessi che saranno proposti sulla vettura.
La Carabo era veramente una finestra aperta sul futuro dell’automobile e segnò il passaggio dall’epoca romantica, in cui il ‘carrozziere’ creava le forme battendo le lastre di metallo a mano per creare linee tondeggianti, sensuali e talvolta estremamente complesse nella ricerca dell’aerodinamica unita alla funzionalità , approccio sublimato dalla 33 Stradale, a quella industriale, in cui la semplificazione delle forme era unita a un’avanzata ricerca aerodinamica per creare un corpo vettura basso e filante.
Al confronto, la 33 Stradale e la Carabo impersonavano la sublimazione della scultura meccanica e l’auto del domani, due facce che a un osservatore esterno pareva impossibile appartenessero alla stessa medaglia. Nella Carabo tutto l’aspetto riporta a una linea tagliente, dal profilo a cuneo segnato dall’inclinazione del cofano che prosegue nel parabrezza, in pratica l’opposto di quanto visto fino ad allora. Resta, forse per un richiamo alle origini, un analogo sistema di apertura delle porte.
La Montreal
Fu dunque in questo contesto di grandi cambiamenti e in questo clima di positive sollecitazioni tecnologiche che il presidente Giuseppe Luraghi, contestualmente all’incarico all’ufficio tecnico, presieduto Satta Puliga e Busso, di progettare il telaio dei due prototipi da esporre a Montreal l’anno successivo, decise di affidare lo stile e i dettagli degli interni a Bertone.
Le specifiche tecniche prevedevano che l’autotelaio potesse ospitare sia il tradizionale quattro cilindri bialbero di 1.6 litri della Giulia sia il blasonato V8 2.0 litri della 33 Stradale.
I prototipi, soprannominati  Montrealine, dovevano rimanere tali ed essere esclusivamente un esercizio stilistico da esposizione e un’attrazione museale; tuttavia, complice la notorietà e il gradimento del marchio di Arese in Nord America, il giudizio del pubblico fu così positivo che indusse i vertici aziendali a considerare seriamente di produrre in serie la vettura.
Marcello Gandini aveva saputo raffigurare una vera granturismo coupè molto filante, pur con dimensioni generose; dal punto di vista meccanico, abbandonata l’idea del sottodimensionato quattro cilindri della Giulia si optò per un derivato dal V8 della 33 Stradale con cubatura portata da 2.0 a 2.6 litri e potenza specifica passata da 130 a circa 77 CV/litro.
Una diversa disposizione del manovellismo dell’albero motore, nuovi pistoni e fasatura e l’iniezione meccanica Spica che sostituì la Lucas furono alcune delle modifiche apportate al propulsore della 33 Stradale.
Il cambio era un raffinato manuale 5 marce della ZF che sopperiva al meglio la mancanza da parte dell’Alfa Romeo di un’unità in grado di gestire la poderosa coppia del V8. Per il gruppo differenziale si optò per quello della 2000 GTV.
Nonostante il progetto fosse già pronto nel 1967, il cambio del  propulsore posticipò al Salone di Ginevra del 1970 la presentazione ufficiale della versione definitiva, che aveva dovuto subire non poche modifiche, soprattutto nella parte anteriore; questo portò a un confronto tra Gandini ed i tecnici dell’Alfa che portarono lo stilista a dover ridisegnare la parte anteriore con una maggiore innalzamento del cofano anteriore, all’adozione di una finta presa d’aria centrale stile NACA e una minore rastrematura del parabrezza.
La linea ne risultò così un po’ più appesantita anche se il risultato finale non faceva perdere alla Montreal il fascino che aveva destato il prototipo.
Le consegne iniziarono all’inizio del 1972 al prezzo, considerevole per allora, di 5.700.000 lire.
La Montreal fu un’automobile ambita da molti personaggi famosi dello spettacolo e dello sport; Gigi Riva, allora uno dei calciatori di grido, fu uno dei primi ad accaparrarsela con una splendida livrea rosso Cina.
A proposito di colori, va osservato che dopo la Carabo, proposta in verde luminescente con dettagli arancione, l’Alfa Romeo iniziò a rivolgere un’attenzione particolare a tinte e abbinamenti estrosi e a tecniche di verniciatura speciali che diverranno una caratteristica del Marchio a iniziare proprio dalla Montreal che si caratterizzava ancor più come un’automobile all’avanguardia.
Pensare alla Montreal come un’auto sportiva derivata dalle corse stride con l’aspetto esteriore che rende più l’idea di una veloce e confortevole granturismo.
Nonostante il V8 di Arese abbia una vocazione molto brillante, l’autotelaio di derivazione Giulia non è all’altezza della potenza del motore e a contenere le reazioni di una guida estremamente sportiva.
Un assetto caratterizzato da un eccessivo rollio in curva, un sistema frenante a dischi auto ventilanti di produzione Girling sulle quattro ruote è in linea con le dotazioni dell’epoca ma sicuramente mostra i limiti quando si sfruttano al massimo le prestazioni.
A tal proposito parliamo di 200 CV a 6.500 giri/min, 24 kgm di coppia a 4.750 giri, 224 km/h di velocità massima, 28 secondi per percorrere il chilometro con partenza da fermo e 7 secondi nello scatto da 0 a 100 km/h.
La Montreal venne impiegata anche nelle competizioni su pista con configurazioni che a seconda dei regolamenti le consentivano di raggiungere i 340 CV e i 3.0 litri di cilindrata; Il motore fu anche utilizzato come propulsore entrobordo nelle gare marine, dove vinse il campionato mondiale nel 1974.
Tuttavia la Montreal non fu un’auto di successo come del resto non lo furono molte concorrenti dell’epoca così prestazionali che pagarono lo scotto di debuttare all’inizio di un’epoca che vedeva l’inesorabile tramonto di quel genere di vetture.
Il clima sociale che da li a poco si infiammò, la crisi petrolifera del 1973 furono importanti concause che, pur con una produzione che si spinse fino ai primi mesi del 1977, ne decretarono l’uscita dai listini dopo appena 3.925 unità prodotte.
Testo di Alessandro Cerruti
Foto Archivio e Centro Documentazione Storica alfa Romeo